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mercoledì 26 febbraio 2014

Da Blade Runner a Black Mirror: distopie a confronto

Blade Runner è ambientato nella Los Angeles del 2019, il cui aspetto è profondamente mutato, Scott ci propone una metropoli spettrale e inquietante, con enormi palazzi dove il nuovo si mescola a un barocco di maniera, illuminata da neon colorati con immagini pubblicitarie ridondanti e ossessive che scorrono su schermi al LED, battuta incessantemente da piogge acide e avvolta in fumi bianchi, dove la notte è preponderante sul giorno. Dentro di essa scorre un’umanità frenetica e disordinata e sempre più asiatica che si muove tra macchine(poche) che viaggiano nell’aria e altre(tante) che stancamente provano a muoversi su strade intasate. Chi può permetterselo può migrare verso le colonie extramondo, la stragrande maggioranza invece è destinata a vivere dentro questa grande e sventurata China Town. Il progresso tecnologico ha portato l’Uomo a replicare se stesso sotto forma di replicanti, alcuni di questi sono sfuggiti al suo controllo e un poliziotto dell’unità speciale Blade Runner, Rick Deckard, dovrà trovarli per eliminarli. Scott ci offre una visione di un futuro chiaramente pessimistica dove l’avanzamento tecnologico fa ancora i conti con elementi del passato, dove l’istanza ambientalista è presente: il pianeta è saturo nelle sue risorse ed è sovraffollato, gli animali sono in gran parte estinti e per questo non si possono più mangiare, l’umanità del pianeta terra ha ormai i giorni contanti, una scadenza proprio come quella dei replicanti che essa stessa ha messo al mondo.
L’idea del replicante offre una chiave di lettura interessante, sono prodotti dall’Uomo stesso per servirsene per mansioni scomode o faticose, sono però anche un prototipo di uomo perfetto, sono fisicamente belli ed efficienti, ma soprattutto sono dotati di un cervello intelligente e dotato di ricordi, che gli ingegneri stessi hanno inserito nella loro mente. L’unica discriminante rispetto agli uomini è quella emozionale, infatti i replicanti non sono capaci di gestire le emozioni. Su questo aspetto il regista costruisce la storia, Deckard finisce per innamorarsi di una replicante che dovrebbe egli stesso eliminare, ma possibilmente, tra le diverse letture, è egli stesso un replicante sfuggito al controllo e riprogrammato per eliminare gli altri. I ricordi e le emozioni assumono centralità assoluta nel discorso di Scott: i replicanti sono stati ideati per essere “più umano dell’umano”, come recita lo slogan pubblicitario della Tyrrel Corporation, ma in pratica sono oggetti, dotati di ricordi prefabbricati ma soprattutto di emozioni, in cosa sono quindi diversi dai veri uomini? Possibilmente in nulla, l’Uomo ha creato un suo Altro, forse migliore, e per questo vuole eliminarlo. Il replicante Roy uccide il proprio “padre”, come un novello Edipo, per poter avere la vita. L’empatia è proprio verso i replicanti perché ancora dotati di capacità di emozionarsi in un contesto ambientale degradante e mortifero. La colomba bianca che il replicante Roy lascia volare poco prima di morire è un segno di speranza per la vita dell’umanità.
Vi è quindi nell’impianto distopico del Blade Runner di Scott un barlume di positività, una luce fioca in fondo al tunnel: nonostante l’Uomo abbia fallito ha prodotto un altro sé che sembra potersi regalare una seconda possibilità.  
Vista la centralità che le emozioni rivestono nel film di Scott ho pensato di confrontare questo elemento con la recente opera di Charlie Brooker.
Black Mirror è una serie tv inglese che ha avuto ampia diffusione presso i canali alternativi del web, rendendola di fatto, in pochissimo tempo, un vero e proprio cult. Il suo sguardo distopico ha per oggetto ogni forma di tecnologia che si trova nella nostra vita quotidiana, quello “specchio nero” che si riferisce agli schermi che sempre di più arredano la vita dell’uomo. Il futuro al quale questa serie si riferisce è più che prossimo, affatto lontano dal presente che viviamo, in alcuni episodi della serie si ha a che fare con tecnologie che sono già ampiamente presenti e diffuse nella quotidianità. Brooker non si spinge più di tanto in là con la fantasia o con le lancette del tempo, ci mostra come i diversi elementi tecnologici, dai social network agli schermi ultrapiatti e i cellulari di ultima generazione, non siano più soltanto degli strumenti della quotidianità ma finiscono per essere un prolungamento della nostra stessa esistenza. I meccanismi di assuefazione e dipendenza dalle tecnologie si instaurano in maniera sempre più subdola ed invisibile nella vita di ogni giorno. L’ideatore di Black Mirror non ha bisogno di dipingere ambientazioni dalle tinte fosche e apocalittiche come quelle di Scott in Blade Runner, anzi al contrario ci mostra una Gran Bretagna(che potrebbe essere qualsiasi altro posto nel mondo) come ogni giorno vediamo il mondo dalla nostra finestra. Le navicelle spaziali ancora non esistono, e le piogge acide di Blade Runner non affliggono l’umanità, ma al contrario tutto è molto normale e banale. Ciò che davvero colpisce e costruisce una immaginario distopico della realtà è la forte mancanza di speranza che l’opera nel suo insieme finisce per offrirci.Ho voluto isolare un episodio particolare di Black Mirror che in maniera ideale ho ricollegato con l’elemento da me analizzato in Blade Runner, ovvero quello emozionale.
Nel terzo episodio della prima stagione di Black Mirror intitolato “The entire history of you” si racconta la storia di una coppia di giovani coniugi appartenenti all’alta borghesia inglese felicemente sposati e con un bambino piccolo. La tranquillità della coppia viene turbata quando il marito scopre un vecchio tradimento della moglie. In questo episodio l’elemento tecnologico presente è quello di un microchip inserito dietro l’orecchio di gran parte degli uomini, questo strumento permette la continua registrazione e immagazzinamento della vita vissuta, e quindi dei ricordi di tutti coloro che lo possiedono. Tramite un piccolo telecomando è possibile rivedere in ogni particolare il ricordo selezionato. L’impatto drammatico dell’elemento tecnologico in questione appare devastante, la continua possibilità di poter rivivere i ricordi belli e positivi priva del tutto i protagonisti dal godimento della vita in divenire, aumentando in essi la smania di controllo sul vissuto della persona che si ha accanto: tutto viene registrato e può essere mandato avanti e indietro, ingrandito e sezionato istante dopo istante all’infinito. Chi non possiede questo chip impiantato dietro l’orecchio è considerato strano e fuori dal mondo. Così il ricordo diventa un oggetto e una merce, che può essere impiantato da una persona a un’altra nella più totale spersonalizzazione del vissuto, proprio come capitava ai replicanti di Blade Runner dotati di ricordi di altre persone e che finivano per considerare facenti parte del proprio vissuto. Sono poi soprattutto le emozioni a svuotarsi del tutto della propria carica distintiva, se per i replicanti erano un richiamo a un cartesiano “provo emozioni quindi sono” nei protagonisti dell’episodio di Black Mirror sono un qualcosa che non ha più senso vivere perché si hanno già dentro la propria testa(o forse proprio hard disk?) e che in qualsiasi momento conviene selezionare e rivivere da lì senza il rischio e il brivido che può offrire la vera vita vissuta. 

Viene da chiedersi se lo scenario che ci propone l’episodio di Black Mirror è così lontano dalla nostra quotidianità. L’uso dei microchip sotto pelle è ampiamente diffuso da anni, in particolare per gli animali domestici. Inoltre la possibilità di immagazzinare una gran quantità di informazioni dentro dispositivi molto piccoli si è altrettanto diffusa e sviluppata. La capacità con la quale Brooker tocca i tasti dolenti del rapporto tra l’uomo e i mezzi tecnologici è a mio avviso davvero stupefacente. Se in Blade Runner era l’impalcatura visiva e ambientale a costruire una distopia terrificante ma al tempo stesso lontana dalla vita di ogni giorno, in Black Mirror è al contrario la quotidianità e normalità dell’ambientazione che crea sgomento e fa venire un forte senso di vertigini nei confronti dell’uso malato e incontrollato dei mezzi tecnologici. 



Filmografia:

- Blade Runner, Ridley Scott, 1982, USA 

- Black Mirror, Charlie Brooker, "The entire history of you", Stagione I Episodio III, 2011, GB 

venerdì 2 marzo 2012

Wall-E


Ammetto di averlo visto con un ritardo importante, la storia è piuttosto nota: siamo nel 2805 e il pianeta Terra è ormai disabitato, l'umanità vaga nello spazio da più di 700 anni dentro una crociera interminabile nell'attesa che la Terra, afflitta da un'inquinamento di proporzioni bibliche, torni ad essere abitabile. Il progetto di smaltimento dei rifiuti terrestri varato centinaia di anni prima è ormai fallito, solo un piccolo robottino dalle fragili braccia meccaniche, di nome Wall-E, è rimasto nel tentativo di riordinare il caos di un paesaggio dalle sembianze venusiane. Attorno a lui solo montagne di rifiuti di ogni genere e una vivace blatta sopravvissuta che gli ronza intorno.
Il simpatico Wall-E, costretto all'isolamento da centinaia di anni, inizia a sviluppare comportamenti molto "umani": rivede in continuazione lo stesso musical"Hello, Dolly!", con infantile curiosità utilizza strumenti quotidiani a lui del tutto sconosciuti, e quando incontra EVE, un robot femmina mandato sulla terra alla ricerca di vita,se ne innamora perdutamente manifestandole un affetto non del tutto ricambiato. La missione di EVE, trovata una forma di vita vegetale, termina per fare ritorno sulla immensa nave da crociera, portando con sé, inconsapevolmente, l'intruso Wall-E, che finirà per cambiare le sorti della nomade umanità.
Il lungometraggio della Pixar "Wall-E" prende forma e si muove con grande dignità tra i pensieri di Asimov e Kubrick, infarcendo il tutto con speranze ambientaliste e anticonsumiste, e persino critiche anticapitaliste in quanto l'umanità è governata da una grande azienda commerciale. Insomma un'opera di intrattenimento per bambini, nella quale di certo non mancano gustosissimi siparietti e buffe situazioni, ma anche il tentativo di rendere "Wall-E" non soltanto quello. Prova a guardare oltre, sino agli adulti, gettando un occhio pessimista, quasi distopico, sull'umanità che siamo e che possibilmente saremo. Questa umanità descritta è pigra e obesa, si muove trangugiando cibo in continuazione sdraiata su una poltrona ambulante, che fila dritta e inesorabile su binari già tracciati, mentre osserva irretita uno schermo olografico.
Gli uomini non si guardano più negli occhi, e non comprendono il significato, tra gli altri, di vocaboli elementari come "terra" e "danzare". Si vive in un contesto alienante fatto di invadenti pubblicità, estremamente rumorose e colorate, attorniati da un esercito di servizievoli robot. Proprio questi ultimi adesso hanno il controllo, ecco Asimov, e nel momento in cui l'uomo prova a riprendere la propria posizione di preminenza si ribellano e si ammutinano guidati da un novello HAL 9000, ecco Kubrick, per far capire che senza loro l'uomo non può andare avanti. Ricordandoci che alla fine è solo una bella favola, l'uomo ottimisticamente riesce a rialzarsi, con la stessa fatica di chi si alza dal divano dopo aver dimenticato il telecomando, e con orgoglio riprende in mano il controllo della propria esistenza. Tra un romanticismo senza tempo, una bella e atipica storia di amore, un citazionismo di buona fattura(oltre ai già citati: siamo proprio sicuri che il robot Wall-E non sia scopiazzato da Corto Circuito?), momenti esilaranti e contenuti non da poco, "Wall-E" va oltre la dimensione del "cartone per bambini" e prova, con buoni risultati, ad aprirci un pò gli occhi.


Scheda film

Regia: Andrew Stanton
Anno e Nazione: 2008, USA

Adieu

venerdì 2 dicembre 2011

La Cosa - 2011

Quando qualche mese fa recensii "La Cosa" di John Carpenter salutai con poco favore la realizzazione del prequel, scrivendo così: "notizia di questi tempi è che in rampa di lancio c’è il prequel ambientato nell'accampamento norvegese. Pazienza! Il meccanismo prequel/sequel/remake/reboot sembra aver fagocitato anche La Cosa…".
Beh, per quanto snob fosse il mio giudizio, davvero non intravedevo nulla di positivo in una operazione del genere, e invece...
Siamo sempre in Antartide nel 1982, un gruppo di ricercatori norvegesi trova una navicella spaziale intrappolata tra i ghiacci da milioni di anni, dentro di essa viene rinvenuta una creatura aliena dall'aspetto mostruoso, apparentemente morta. Per completare le ricerche che potrebbero dare risultati rivoluzionari chiedono l'ausilio di una giovane paleontologa e un paio di elicotteristi americani.
Tornati nel campo di ricerca cominciano i festeggiamenti per la straordinaria scoperta, soltanto che la creatura non è affatto morta...
Davvero ottima la prova del semisconosciuto regista olandese Matthijs van Heijningen Jr.(pure questo per scriverlo devo copiaincollarlo) alle prese con il prequel di uno dei migliori lavori di Carpenter, ambientato temporalmente tre giorni prima rispetto al capitolo del 1982. Per non scontentare gli aficionados il regista sceglie la strada dell'usato sicuro, rendendosi il più possibile aderente alla fattura visiva carpenteriana, seguendone anche il senso del messaggio di fondo, nonostante potesse scegliere la strada di una certa autonomia narrativa in quanto non si trattava di un remake. Ripropone e accentua l'intricato meccanismo di sospetti che già nell'opera di Carpenter veniva proposto, che rappresentò uno degli spunti di novità rispetto a "La Cosa" di Howard Hawks del 1951, diventata ormai "nonna", nella quale la dialettica del gruppo, che finiva per sfaldarsi tra mille sospetti reciproci, era un tema soltanto accennato.
Merita poi uno spazio particolare sua maestà La Cosa che in questo nuovo capitolo non viene stravolta nell'estetica e nel carattere, anzi, grazie agli effetti visivi che il cinema di oggi permette, è ancora di più un'assoluta protagonista, sempre in forma multi tentacolare, multiforme e maledettamente orrorifica.
Insomma van Heijningen Jr. se la cava tutto sommato bene, rischiando il meno possibile, permettendosi soltanto un finale un pò più fantascientifico, con chiari influssi del buon"Alien" e cinema di genere. Nel nutrito cast di attori spicca la super onnisciente paleontologa interpretata dalla bella Mary Elizabeth Winstead("Grindhouse") che si barcamena con sapienza in mezzo ai tanti biondi, tra questi mi hanno divertito non poco i rozzi norvegesi che non capivano un'H di inglese.
Detto questo non voglio porre limiti ad un sequel o remake che si voglia, questo è andato bene, il prossimo chissà...



Scheda Film

Anno e Nazione: 2011, USA

Adieu

mercoledì 30 novembre 2011

Melancholia

Sarà colpa del fatidico 2012 che si avvicina, sarà che ormai si guarda più allo spread che ai risultati della claudicante Inter di quest'anno, sarà che prima o poi a tutti tocca chiedersi come, quando e perchè finiremo, sarà quindi che in questo deprimente contesto ci sta pure, puntuale come la sveglia al mattino, la tanto attesa sentenza del regista vivente più discusso e discutibile in circolazione: sua nazistà Lars Von Trier. E dico nazistà per il noto e, a mio parere, esilarante siparietto svoltosi a Cannes quando un Von Trier sopra le righe dice di provare una certa empatia per il nazismo e Hitler. Insomma un vero colpo di genio che ingrossa a dismisura l'aura del personaggio creando sgomento generale, con una esterrefatta Kirsten Dunst accanto, e un sacco di giornalisti che non credono di trovarsi lì in quel momento, con cotanta botta di culo.
Nonostante il gustoso antefatto, "Melancholia" si presenta con tutti i crismi della rispettabilità: una storia sulla fine del mondo diretta da un regista che salomonicamente definirei "originale", e un cast di stelle più o meno lucenti(e col meno mi riferisco all'inutile Kiefer Sutherland).
La storia si divide in due capitoli, che portano il nome delle due sorelle protagoniste, Justine e Claire. Il primo capitolo è ambientato in una villa da sogno con campo da golf collegato(ben 18 buche!) dove si svolge il matrimonio della bella Justine, ovvero Kirsten Dunst e le sue tette, che sposa un altrettanto bello, ma poveraccio è pure cornuto, marito. Attorno agli sposi troviamo Claire, la sorella che organizza il tutto, il marito di lei, la madre e il padre di loro, e una gran quantità di emeriti e rispettabili invitati. Il matrimonio non è che poi sia sta gran favola: i rapporti interni alla famiglia sono eufemisticamente fragili e vengono fuori in tutto il loro splendore. Nel secondo capitolo troviamo il momento successivo al matrimonio, quando nella stessa villa le due sorelle e il marito di Claire, con figlio, vivono l'imminente impatto del pianeta Melancholia sulla Terra, con sensazione da "ultima spiaggia" annessa.
Come detto in precedenza in Lars Von Trier c'è tanto di discutibile, sorvolando sul personaggio/regista che si è costruito, anche il suo cinema, che piaccia o no, fa tanto discutere. Di discutibile in "Melancholia" c'è una durata enorme se rapportata ai ritmi da flebo di caffè che il regista danese impone sin dall'intro artificioso mandato in onda a rallentatore, che, per quanto bello a vedersi, tende già a metter a dura prova i nervi di chi guarda.
A questo bisogna aggiungere un primo capitolo verboso e privo di sussulti, nonostante un paio di personaggi teoricamente interessanti come la madre autoritaria interpretata da Charlotte Rampling e il padre godereccio, John Hurt, entrambi fuori forma e mal utilizzati.
Il secondo capitolo invece mostra qualche spunto interessante: il rapporto tra le sorelle cambia con il cambiare delle atmosfere, la lunatica e depressa Justine con la fine imminente trova spunti di serenità e forza, al contrario l'iper controllata Claire(Charlotte Gainsbourg) della prima parte inizia a dare segni di cedimento mentale complice anche un marito che le spara grosse(quell'inutile Sutherland di prima). Come se la pazzia fosse l'unico modo per accettare la morte, anzi la fine di tutto.
Il finale è sicuramente di impatto(in tutti i sensi), che poi Melancholia mi sia piaciuto ancora non so dirlo, e continuo a domandarmelo, di certo mi rimangono sensazioni contrastanti. La lunghezza e i ritmi snervanti non aiutano di certo, ma la lettura della seconda parte mi intriga per l'atmosfera di serenità e rassegnazione creata dall'imminente fine, lontana da ogni isterismo e confusione che il momento potrebbe causare. Proprio nella Fine la grande protagonista torna ad essere la Natura, placida protagonista che accompagna l'umanità verso il proprio destino.



Scheda Film

Anno e Nazione: 2011, Danimarca - Francia - Germania - Svezia

Adieu

domenica 16 ottobre 2011

S1m0ne

"E se sostituissi le bizzose e pretenziose attrici cagne con il prototipo dell'attrice perfetta? Il meglio della Loren, la Garbo, la Hepburn e chi più ne ha ne metta". Questa la riflessione che balza alla mente di Viktor Taransky, un regista ormai sul lastrico alla continua ricerca di quello che possa essere il suo primo grande successo cinematografico. L'opportunità nasce quando un genio folle e sul punto di morte gli propone un programma in grado di creare la sua attrice perfetta. Il nome della celestiale creatura è S1m0ne, e come da titolo, figlia del sistema binario che muove il mondo informatico, il suo successo va oltre ogni limite pensabile e i fan di tutto il mondo impazziscono per qualcosa che semplicemente non c'è.
Andrew Niccol è un regista che mostra una certa confidenza quando si ha a che fare con realtà virtuali e fantascienze umane, vedi la direzione di "GATTACA" all'esordio nel 97, "In Time" ormai in rampa di lancio, e la sua presenza tra gli sceneggiatori di "The Truman Show". In questo contesto "S1m0ne" è una commedia che propone spunti interessanti di riflessione sul divismo e le prospettive del cinema in temi di super tecnologie. Vedere migliaia di persone partecipare deliranti ad un concerto di una star fatta di pixel è uno dei momenti di massima ironia a riguardo. A pensarci bene magari anche un pò drammatico, in quanto S1m0ne è la "morte del reale", come essa stessa di definisce.
In un mondo "usa e getta" l'unica diva che non subirebbe l'usura del tempo e vicissitudini private potrebbe essere solo una S1m0ne. La figura di S1m0ne, eterea celestiale e volutamente poco vera, è per Taransky, un Al Pacino in discreta forma, il pass per il successo ma anche il suo limite più grande, difficile affrancarsi da una star cotanto apprezzata, ancora più difficile sbarazzarsene. Qualsiasi cosa lei faccia, più che altro le fa fare il suo pigmalione, va bene ad un pubblico massificato ormai appiattito, inebetito e del tutto privo di senso critico.
Niccol appare divertito nel giocare con questi temi, e a tratti riesce anche a divertire, costruendo un commedia intelligente, e perchè no, anche profetica sul cinema di domani(e oggi).
Ok, nessun capolavoro in vista, anche qualche pecca per un finale un pò tirato per le orecchie, ma niente male per un regista non molto prolifico, ricordo anche l'ottimo "Lord of War", ma senza dubbio interessante.



Scheda Film

Anno e Nazione: 2002, USA

Adieu