giovedì 27 febbraio 2014

In Bruges


"Andatevene da Londra, deficienti rincoglioniti. Andate a Bruges." - "Non sapevo neanche dove cazzo fosse Bruges. È in Belgio." 
Che il rapporto tra la qualità e la diffusione e conoscenza di un film seguisse spesso percorsi del tutto inspiegabili credo che non sia una novità. Ma che un buon film, oltre alla poca diffusione, subisca anche una storpiatura di senso, credo che sia pure troppo. E' questo il caso di In Bruges che è passato ai più inosservato ma soprattutto sdoganato come commediola demenziale con l'attore "bono" protagonista. Basta dare un'occhiata al trailer per capire cosa abbiamo davanti. 
Davvero un peccato per quello che si può ben definire come un bell'esempio di cinema europeo. Un po' black comedy, un po' thriller, un po' azione, ma soprattutto tante cose belle da vedere, e una in particolare: la fottutissima Bruges.

La città belga è infatti la destinazione un po' anomala che viene assegnata a due killer di professione, Ken e Ray, con misterioso incarico da svolgere. Proprio come la città protagonista, In Bruges si lascia guardare e ci sta poco a stimolare l'empatia verso i protagonisti, tra battute piccate e situazioni rocambolesche, dritto verso un finale sempre più thrilling. Se la battuta sul Tottenham è da intenditori, le interpretazioni del corpulento Brendan Gleeson e del ragazzo problematico Colin Farrell saltano agli occhi senza dimenticare il Ralph Fiennes del finale: antipatico, sboccato, cattivo, leale e semplicemente geniale.
L'esordiente Martin McDonagh gestisce divinamente tre grandi e mezzo(guardando capirete il riferimento al mezzo), miscelando bene l'umorismo britannico con il thriller, ma soprattutto non lascia proprio nulla al caso mettendo su un meccanismo perfetto dove ogni elemento, personaggio e accadimento risulta perfettamente congeniale alla scrittura dell'opera. Tutto fila e tutto torna(ma se proprio bisogna essere pignoli dopo un volo come quello... vabè!)e mentre vai verso il finale inizi a pensare se il periodo ideale in cui visitare Bruges sia la primavera o l'autunno, se i suoi canali in inverno siano a rischio gelata ma che magari è anche il momento più bello in cui andarci tra una nevicata e un cioccolata calda, poi pensi che magari è bella sempre e sei sempre più obnubilato da questa overdose di entusiasmo... e poi, finito tutto, pensi che "almeno in prigione o anche da morto non sarei più stato in questa cazzo di Bruges!"


Scheda film

Regia: Martin McDonagh 
Anno e Nazione: 2008, GB 

Adieu 

mercoledì 26 febbraio 2014

Da Blade Runner a Black Mirror: distopie a confronto

Blade Runner è ambientato nella Los Angeles del 2019, il cui aspetto è profondamente mutato, Scott ci propone una metropoli spettrale e inquietante, con enormi palazzi dove il nuovo si mescola a un barocco di maniera, illuminata da neon colorati con immagini pubblicitarie ridondanti e ossessive che scorrono su schermi al LED, battuta incessantemente da piogge acide e avvolta in fumi bianchi, dove la notte è preponderante sul giorno. Dentro di essa scorre un’umanità frenetica e disordinata e sempre più asiatica che si muove tra macchine(poche) che viaggiano nell’aria e altre(tante) che stancamente provano a muoversi su strade intasate. Chi può permetterselo può migrare verso le colonie extramondo, la stragrande maggioranza invece è destinata a vivere dentro questa grande e sventurata China Town. Il progresso tecnologico ha portato l’Uomo a replicare se stesso sotto forma di replicanti, alcuni di questi sono sfuggiti al suo controllo e un poliziotto dell’unità speciale Blade Runner, Rick Deckard, dovrà trovarli per eliminarli. Scott ci offre una visione di un futuro chiaramente pessimistica dove l’avanzamento tecnologico fa ancora i conti con elementi del passato, dove l’istanza ambientalista è presente: il pianeta è saturo nelle sue risorse ed è sovraffollato, gli animali sono in gran parte estinti e per questo non si possono più mangiare, l’umanità del pianeta terra ha ormai i giorni contanti, una scadenza proprio come quella dei replicanti che essa stessa ha messo al mondo.
L’idea del replicante offre una chiave di lettura interessante, sono prodotti dall’Uomo stesso per servirsene per mansioni scomode o faticose, sono però anche un prototipo di uomo perfetto, sono fisicamente belli ed efficienti, ma soprattutto sono dotati di un cervello intelligente e dotato di ricordi, che gli ingegneri stessi hanno inserito nella loro mente. L’unica discriminante rispetto agli uomini è quella emozionale, infatti i replicanti non sono capaci di gestire le emozioni. Su questo aspetto il regista costruisce la storia, Deckard finisce per innamorarsi di una replicante che dovrebbe egli stesso eliminare, ma possibilmente, tra le diverse letture, è egli stesso un replicante sfuggito al controllo e riprogrammato per eliminare gli altri. I ricordi e le emozioni assumono centralità assoluta nel discorso di Scott: i replicanti sono stati ideati per essere “più umano dell’umano”, come recita lo slogan pubblicitario della Tyrrel Corporation, ma in pratica sono oggetti, dotati di ricordi prefabbricati ma soprattutto di emozioni, in cosa sono quindi diversi dai veri uomini? Possibilmente in nulla, l’Uomo ha creato un suo Altro, forse migliore, e per questo vuole eliminarlo. Il replicante Roy uccide il proprio “padre”, come un novello Edipo, per poter avere la vita. L’empatia è proprio verso i replicanti perché ancora dotati di capacità di emozionarsi in un contesto ambientale degradante e mortifero. La colomba bianca che il replicante Roy lascia volare poco prima di morire è un segno di speranza per la vita dell’umanità.
Vi è quindi nell’impianto distopico del Blade Runner di Scott un barlume di positività, una luce fioca in fondo al tunnel: nonostante l’Uomo abbia fallito ha prodotto un altro sé che sembra potersi regalare una seconda possibilità.  
Vista la centralità che le emozioni rivestono nel film di Scott ho pensato di confrontare questo elemento con la recente opera di Charlie Brooker.
Black Mirror è una serie tv inglese che ha avuto ampia diffusione presso i canali alternativi del web, rendendola di fatto, in pochissimo tempo, un vero e proprio cult. Il suo sguardo distopico ha per oggetto ogni forma di tecnologia che si trova nella nostra vita quotidiana, quello “specchio nero” che si riferisce agli schermi che sempre di più arredano la vita dell’uomo. Il futuro al quale questa serie si riferisce è più che prossimo, affatto lontano dal presente che viviamo, in alcuni episodi della serie si ha a che fare con tecnologie che sono già ampiamente presenti e diffuse nella quotidianità. Brooker non si spinge più di tanto in là con la fantasia o con le lancette del tempo, ci mostra come i diversi elementi tecnologici, dai social network agli schermi ultrapiatti e i cellulari di ultima generazione, non siano più soltanto degli strumenti della quotidianità ma finiscono per essere un prolungamento della nostra stessa esistenza. I meccanismi di assuefazione e dipendenza dalle tecnologie si instaurano in maniera sempre più subdola ed invisibile nella vita di ogni giorno. L’ideatore di Black Mirror non ha bisogno di dipingere ambientazioni dalle tinte fosche e apocalittiche come quelle di Scott in Blade Runner, anzi al contrario ci mostra una Gran Bretagna(che potrebbe essere qualsiasi altro posto nel mondo) come ogni giorno vediamo il mondo dalla nostra finestra. Le navicelle spaziali ancora non esistono, e le piogge acide di Blade Runner non affliggono l’umanità, ma al contrario tutto è molto normale e banale. Ciò che davvero colpisce e costruisce una immaginario distopico della realtà è la forte mancanza di speranza che l’opera nel suo insieme finisce per offrirci.Ho voluto isolare un episodio particolare di Black Mirror che in maniera ideale ho ricollegato con l’elemento da me analizzato in Blade Runner, ovvero quello emozionale.
Nel terzo episodio della prima stagione di Black Mirror intitolato “The entire history of you” si racconta la storia di una coppia di giovani coniugi appartenenti all’alta borghesia inglese felicemente sposati e con un bambino piccolo. La tranquillità della coppia viene turbata quando il marito scopre un vecchio tradimento della moglie. In questo episodio l’elemento tecnologico presente è quello di un microchip inserito dietro l’orecchio di gran parte degli uomini, questo strumento permette la continua registrazione e immagazzinamento della vita vissuta, e quindi dei ricordi di tutti coloro che lo possiedono. Tramite un piccolo telecomando è possibile rivedere in ogni particolare il ricordo selezionato. L’impatto drammatico dell’elemento tecnologico in questione appare devastante, la continua possibilità di poter rivivere i ricordi belli e positivi priva del tutto i protagonisti dal godimento della vita in divenire, aumentando in essi la smania di controllo sul vissuto della persona che si ha accanto: tutto viene registrato e può essere mandato avanti e indietro, ingrandito e sezionato istante dopo istante all’infinito. Chi non possiede questo chip impiantato dietro l’orecchio è considerato strano e fuori dal mondo. Così il ricordo diventa un oggetto e una merce, che può essere impiantato da una persona a un’altra nella più totale spersonalizzazione del vissuto, proprio come capitava ai replicanti di Blade Runner dotati di ricordi di altre persone e che finivano per considerare facenti parte del proprio vissuto. Sono poi soprattutto le emozioni a svuotarsi del tutto della propria carica distintiva, se per i replicanti erano un richiamo a un cartesiano “provo emozioni quindi sono” nei protagonisti dell’episodio di Black Mirror sono un qualcosa che non ha più senso vivere perché si hanno già dentro la propria testa(o forse proprio hard disk?) e che in qualsiasi momento conviene selezionare e rivivere da lì senza il rischio e il brivido che può offrire la vera vita vissuta. 

Viene da chiedersi se lo scenario che ci propone l’episodio di Black Mirror è così lontano dalla nostra quotidianità. L’uso dei microchip sotto pelle è ampiamente diffuso da anni, in particolare per gli animali domestici. Inoltre la possibilità di immagazzinare una gran quantità di informazioni dentro dispositivi molto piccoli si è altrettanto diffusa e sviluppata. La capacità con la quale Brooker tocca i tasti dolenti del rapporto tra l’uomo e i mezzi tecnologici è a mio avviso davvero stupefacente. Se in Blade Runner era l’impalcatura visiva e ambientale a costruire una distopia terrificante ma al tempo stesso lontana dalla vita di ogni giorno, in Black Mirror è al contrario la quotidianità e normalità dell’ambientazione che crea sgomento e fa venire un forte senso di vertigini nei confronti dell’uso malato e incontrollato dei mezzi tecnologici. 



Filmografia:

- Blade Runner, Ridley Scott, 1982, USA 

- Black Mirror, Charlie Brooker, "The entire history of you", Stagione I Episodio III, 2011, GB 

martedì 25 febbraio 2014

Her - Lei



In una Los Angeles di un futuro piuttosto prossimo Theodore Twombly svolge un mestiere particolare: scrive lettere per conto di persone che non riescono ad esprimere i loro sentimenti verso parenti, coniugi o amici. Nonostante l'innata bravura nel proprio campo lavorativo, Theo è un uomo particolarmente solo e asociale, ha un matrimonio fallito alle spalle e un'enorme ritrosia nel firmare le carte del divorzio alla ex moglie. La sua vita cambierà quando comincia ad utilizzare un sistema operativo parlante dotato di intelligenza artificiale in grado di adattarsi all'interlocutore: quella che è soltanto una voce programmata comincia a plasmarsi e diventa la sua compagna di vita Samantha. Dal regista degli apprezzati Essere John Malkovich e Il ladro di Orchidee ci si aspettava di certo qualcosa di notevole, e Spike Jonze non delude affatto. Her è un film che si basa e prende forma intorno al fattore emozionale, che diventa caratterizzante nei personaggi principali: Theo, il protagonista, è un uomo che ha paura di provare nuove emozioni, e che per questo vive nella convinzione che, anche nel caso ci riprovasse, queste sarebbero sempre inferiori a quelle già vissute.Quando però questi incontra il sistema operativo Samantha, che al contrario non ha mai provato emozioni, riacquista quella voglia di vivere che sembrava irreparabilmente aver perso.
"Io sono tua, ma anche non tua"
Samantha vive di stupori primordiali e cresce, si sviluppa, e cambia osservando il mondo intorno a se. Per quanto inizialmente appaia perverso e incredibile, e a volte persino amaramente buffo(come nel caso del tentativo di rapporto sessuale...), il rapporto tra Theo e il suo OS Samantha, con lo scorrer del tempo, nato da uno scarto emozionale, si normalizza e anzi fa emergere problemi e paure(la gelosia, le scelte di vita) che appartengono anche alle coppie "normalmente umane". In Her infatti non c'è una vera e propria riflessione apocalittica sulle tecnologie che sempre più invadono e caratterizzano la nostra vita, siamo insomma lontani dall'ottima critica distopica che caratterizza Black Mirror. Le tecnologie, per quanto invadenti, fanno ormai parte della vita di un futuro, come detto, piuttosto prossimo. Jonze non si chiede se faremo questa "fine", lascia qua e là quale cattivo auspicio ma non una vera e propria critica o messaggio di allarme. Siamo di fronte a una storia d'amore ai tempi dell'ipertecnologia, né più dolce né più amara di quelle che ogni giorno si vivono e si sono vissute.
E' una commedia romantica, a tratti amara, a tratti onirica, che coinvolge e commuove. Straordinario, ancora una volta e semmai ce ne fosse ancora bisogno, un Joaquin Phoenix geniale ed energico che si lancia in dialoghi interattivi esilaranti e in one man show in scena che rimangono a mente. Interessante la prova di Scarlett Johansson che presta la voce al personaggio di Samantha: senza che abbia alcuna presenza fisica il suo tono di voce gutturale e intenso dipinge molto bene il personaggio, anche se temo che possa pesare un po' il "lost in doppiaggio", quindi ne consiglio visione in lingua originale. 
Infine, di molto interessante in Her c'è Los Angeles e le sue ambientazioni. Jonze non mostra un futuro molto cupo, ma gioca molto sui colori di questo: LA ci appare a volte nebbiosa, a volte assolata, con alternanza di colori vivi(negli interni e nei vestiti di Theo) e di quel grigio chiaro molto Hi Tech. Un continuo alternarsi di un languido di fondo e un'esplosione improvvisa di colore, è un po' come le onde emozionali del film, un continuo su e giù che rimane dentro. 

PS: Candidato a diversi Oscar 2014, tra i quali quello per miglior film. 
PPS: Nei titoli di coda si può notare, tra le altre, la dedica al defunto James Gandolfini.





Scheda film

Regia: Spike Jonze 
Anno e Nazione: 2013, USA 
Main Characters: Joaquin PhoenixScarlett JohanssonRooney MaraAmy Adams 

Adieu 

mercoledì 16 maggio 2012

Fratelli




Nella New York degli anni 30’ della rivoluzione fordista, del fiorente cinema “all’americana”*, dei bar post proibizionismo, dei porno-amatoriali proiettati in bordelli bui e fumosi, la famiglia Tempio si stringe nel dolore per la prematura morte di Johnny, il terzo e ultimo fratello di una famiglia malavitosa italoamericana. La lunga veglia del funerale(“The Funeral”, il titolo originale) è l’occasione per meditare sulla vendetta per l’assassinio e, al tempo stesso, un momento per scavare tra le pieghe oscure del sacro nucleo familiare.
“Fratelli” ha ben poco del classico gangster movie o mafia movie, che dir si voglia. Non ci troviamo di fronte alla genesi, apice e fine di un impero malavitoso, con traffici illeciti che spostano vagonate di dollari.
Siamo ben lontani dallo spaccato, tanto ironico quanto geniale, di “Quei bravi ragazzi” di Scorsese, o dalla saga criminale più famosa del cinema che mi par superfluo citare. Questo improprio gangster movie di Abel Ferrara è il più classico e terribile dramma familiare che si declina col passare dei minuti prestando tante buone facce ai diversi personaggi, con Chris Penn(Pace all’anima sua! divino!)e Vincent Gallo sugli scudi, nel quale i diversi soggetti si muovono autonomamente e inconsapevolmente verso la distruzione. Ray, il fratello più grande, è un uomo freddo e determinato che trova la sua unica ragione di vita nella vendetta per la morte di Johnny. Chez, il fratello mediano, è un uomo apparentemente gioviale e pacioso ma tanto fragile psicologicamente da diventare folle. Johnny, il fratello defunto, è un carattere idealista e ribelle, vicino alle istanze operaie, che non disdegna la bella vita tanto da cacciarsi nei guai. («Quel fanatico di tuo fratello, anarchico e puttaniere!»– « No, no, no… Johnny era comunista.»).  
A queste individualità maschili troviamo come contraltare le donne: le mogli, che rimangono a casa consce dei mariti fedifraghi, forti e unite, razionali ma impotenti e rassegnate davanti alla natura ribelle e ferina dei loro uomini. («Sant’Agnese… è la protettrice della purezza.» – «Tu le sei devota?»– «No, sta lì solo per ricordarmi cosa succede a chi dice di no.»).Su questa spaccatura Ferrara mette in scena il dramma della “Famiglia” per antonomasia, oramai annientata. Posiziona da una parte le positive figure femminili e dall’altra quelle negative torbide e insensate dei suoi personaggi maschili che operano in nome di Dio, seguendo una personale giustizia privata e divina. Appare chiaro a tutti dove risieda il “Giusto e Razionale” di questa storia, ma il fatto è che, lo si voglia o meno, questi rimangono solo ed esclusivamente degli “affari da uomini”… Un po’ come quella porta che, inesorabile, si chiude davanti agli occhi di Kay nel finale di un famoso film… 


*Il riferimento è al film proiettato tra le prime immagini "The Petrified Forest" del 1936 di Archie Mayo, con Bette Davis e un giovane Humphrey Bogart 

Scheda film

Regia: Abel Ferrara
Anno e Nazione: 1996, USA

mercoledì 4 aprile 2012

Bubble


Martha e Kyle sono due operai di una fabbrica di bambole sperduta nell'Ohio, lei è una donna di mezza età non molto avvenente che divide le sue giornate tra la fabbrica e l'accudimento dell'anziano padre, lui è un giovane poco più che ventenne che arrotonda con altri lavori faticosi che si aggiungono a quello in fabbrica. I due sono accomunati da una particolare amicizia, Martha è molto protettiva nei confronti del ragazzo: passa a prenderlo a casa per portarlo a lavoro, con lui passa il tempo della pausa pranzo e si lasciano andare a piccole confidenze tra vecchi amici. Tutto procede piatto e imperturbabile sino all'arrivo di Rose, un ragazza coetanea di Kyle che finisce per recitare il ruolo di terzo incomodo agli occhi apparentemente paciosi di Martha. 
Soderbergh ha ormai consolidato il proprio ruolo di regista mimetico e poliedrico in grado di passare con estrema facilità dalle operazioni a budget infinito con attori strapagati - vedi i tre Ocean's, i due "Che" e l'ultimissimo "Contagion"- al più classico cinema low cost con attori esordienti e tematiche da Sundance. Al di là poi delle preferenze personali è fuor di dubbio che il cinema un pò alternativo a Soderbergh riesce pure bene, e il caso del nostro "Bubble" è emblatico. Una storia molto americana, ma facilmente riproponibile anche in chiave europa e nostrana, che ha per luogo la sterminata provincia industrializzata e alienante fatta "tutta allo stesso modo". Proprio questa "provincia meccanica" si offre come scenario placido e inquietante ai protagonisti della storia, i cui ritmi vitali sono scanditi da quelli delle macchine industriali, privi di colore e spunti di umanità, persi in discussioni sempre piatte a prescindere dal luogo o dalla situazione: la pausa pranzo, la cena davanti alla tivù e persino un'incontro amoroso. 
La presenza del regista seppur minimale si nota tramite l'insistenza di piani larghi per gli interni e larghissimi per gli esterni che danno una continua sensazione di straniamento, come anche la continua riproposizione delle operazioni di lavoro sempre uguali a se stesse. Tutto risulta congeniale a dare quella sensazione generale di oppressione e di meccanizzazione della vita insita nella modernità, gli esseri umani che diventano dei pupazzi(o bambole che dir si voglia) assemblati e messi insieme su una catena di montaggio che finisce per essere l'esistenza stessa. Un sorta di "Tempi moderni" in tempi contemporanei, dove il paesaggio stato d'animo fa un tutt'uno con il fermo immagine sugli occhi cerulei e vuoti di Martha, che esplode di efferata umanità finendo irrimediabilmente fuori dagli ingranaggi della società civile. Tutto molto agghiacciante. 



Scheda film 

Anno e Nazione: 2005, USA 

Adieu 

sabato 3 marzo 2012

The Artist

E' il 1927 e siamo a Hollywood nel pieno della age d'or del cinema muto, George Valentin ne rappresenta la punta di diamante, l'attore più acclamato, un'autentica star, divinizzato dal pubblico e dalla stampa, un pò meno dalla critica, ma che importa! Una personalità enorme che difficilmente divide il palco e la gloria con altri, nelle sue brillanti performance duetta con il fedele e intelligentissimo cagnolino che fa piegare in due gli spettatori con le sue mirabolanti evoluzioni, la fama del celebre attore appare intramontabile. Valentin è (in)felicemente sposato con Doris, un bella e statuaria bionda, ma quando incontra casualmente una sua fan, Peppy Miller, tra i due scocca un'intesa molto profonda e particolare. I due recitano pure insieme, ma l'inattesa piega degli eventi finirà per allontanarli. Solo un paio di anni dopo, siamo nell'annus horribilis 1929, la situazione muta radicalmente con l'avvento del sonoro e le quotazioni di George Valentin crollano. L'inarrestabile macchina mediatica vuole facce "nuove" per un cinema "nuovo", serve "carne fresca" per alimentare l'enorme business cinematografico.
Peppy Miller cavalca l'onda della novità e diventa un mito multimilionario, George Valentin, invece, prova ostinatamente a rilanciare il muto e,complice la Grande Depressione, finisce per rimanere senza un soldo. Finisce in malora e valuta il suicidio.
Strana la storia di "The Artist", che per ironia della sorte passa attraverso gli eventi storici, li riattualizza, creando corrispondenze con l'attualità molto particolari. Un film che probabilmente sarebbe rimasto di nicchia, esaltato solo dalla critica, e invisibile al grande pubblico(impietosi in questo senso i paragoni di incassi tra Italia e USA). Ma, come detto, per ironia della sorte, "The Artist" finisce per essere incensato dall'evento più commerciale e mediatico del cinema mondiale, ovvero la premiazione degli Oscar 2012, evento nel quale pesca ben 5 statuette, tra cui "miglior regia" e "miglior film". Ma qual'è la particolarità di "The Artist"? La particolarità sta nell'essere un film muto, proprio quel muto che nella storia del film viene soppiantato dal sonoro, proprio quel muto che viene estromesso e annientato dal trionfo dei suoni. Una sorta di rovesciamento, di scambio di ruoli, un ritorno alla poeticità dell'espressioni facciali e la mimica corporale, dei cartelli che compaiono improvvisamente con le battute dei protagonisti, accompagnati da un sottofondo musicale espressivo ed incessante, con l'intramontabile bianco e nero e le luci che seguono la logica "smarmellante" di borissiana memoria. Si può fare dietrologia a iosa sul trionfo di un piccolo film muto nella notte più glamour del cinema: ricerca di un'autenticità che nell'era del 3D rischia di perdersi? Un'operazione revival per scongelare vecchie pellicole e accapparrarsi i diritti d'autore? E' davvero un Capolavoro? E' una botta di culo? Chissà! Fatto sta che "The Artist" non passa inosservato, va oltre le ogni illazione e punta dritto al cuore.
La scelta degli attori rasenta la perfezione: il George Valentin di Dujardin nella fisicità ricorda un pò Rodolfo Valentin(o) e un pò Clouseau(i baffetti!) e sulla scena emoziona quando prova a cacciare un urlo disumano che risulta del tutto afono, personificando così l'ineluttabile destino di un'intero movimento cinematografico. Da non dimenticare l'ottima Berenice Bejo che impersona una Penny Miller fuori dagli schemi della classica showgirl anni '20, simpatica, affascinante e mai banale.
"The Artist" era una scommessa rischiosa che Hazanavicius vince a mani basse costruendo un disegno che si compone perfettamente, tra gli attori protagonisti e non(sempre validi Goodman e James Crowell), e una carica di espressività ed emotività ben diluita nei 100 minuti a disposizione, ed in particolare in un finale esaltante. Si, trattasi di Capolavoro. E che importa se è soltanto per una sera, ma "The Artist" si è preso una bella rivincita, storica, quasi epocale(era proprio dal 1929 che un film muto non vinceva l'Oscar), sul cinema ultra tecnologico che da un lato amplia le dimensioni, e dall'altro, come sempre più spesso capita, assottiglia le emozioni.


Scheda film

Regista: Michel Hazanavicius
Anno e Nazione: 2011, Francia
Main Characters: Jean Dujardin, Berenice Bejo, John Goodman

Adieu

venerdì 2 marzo 2012

Wall-E


Ammetto di averlo visto con un ritardo importante, la storia è piuttosto nota: siamo nel 2805 e il pianeta Terra è ormai disabitato, l'umanità vaga nello spazio da più di 700 anni dentro una crociera interminabile nell'attesa che la Terra, afflitta da un'inquinamento di proporzioni bibliche, torni ad essere abitabile. Il progetto di smaltimento dei rifiuti terrestri varato centinaia di anni prima è ormai fallito, solo un piccolo robottino dalle fragili braccia meccaniche, di nome Wall-E, è rimasto nel tentativo di riordinare il caos di un paesaggio dalle sembianze venusiane. Attorno a lui solo montagne di rifiuti di ogni genere e una vivace blatta sopravvissuta che gli ronza intorno.
Il simpatico Wall-E, costretto all'isolamento da centinaia di anni, inizia a sviluppare comportamenti molto "umani": rivede in continuazione lo stesso musical"Hello, Dolly!", con infantile curiosità utilizza strumenti quotidiani a lui del tutto sconosciuti, e quando incontra EVE, un robot femmina mandato sulla terra alla ricerca di vita,se ne innamora perdutamente manifestandole un affetto non del tutto ricambiato. La missione di EVE, trovata una forma di vita vegetale, termina per fare ritorno sulla immensa nave da crociera, portando con sé, inconsapevolmente, l'intruso Wall-E, che finirà per cambiare le sorti della nomade umanità.
Il lungometraggio della Pixar "Wall-E" prende forma e si muove con grande dignità tra i pensieri di Asimov e Kubrick, infarcendo il tutto con speranze ambientaliste e anticonsumiste, e persino critiche anticapitaliste in quanto l'umanità è governata da una grande azienda commerciale. Insomma un'opera di intrattenimento per bambini, nella quale di certo non mancano gustosissimi siparietti e buffe situazioni, ma anche il tentativo di rendere "Wall-E" non soltanto quello. Prova a guardare oltre, sino agli adulti, gettando un occhio pessimista, quasi distopico, sull'umanità che siamo e che possibilmente saremo. Questa umanità descritta è pigra e obesa, si muove trangugiando cibo in continuazione sdraiata su una poltrona ambulante, che fila dritta e inesorabile su binari già tracciati, mentre osserva irretita uno schermo olografico.
Gli uomini non si guardano più negli occhi, e non comprendono il significato, tra gli altri, di vocaboli elementari come "terra" e "danzare". Si vive in un contesto alienante fatto di invadenti pubblicità, estremamente rumorose e colorate, attorniati da un esercito di servizievoli robot. Proprio questi ultimi adesso hanno il controllo, ecco Asimov, e nel momento in cui l'uomo prova a riprendere la propria posizione di preminenza si ribellano e si ammutinano guidati da un novello HAL 9000, ecco Kubrick, per far capire che senza loro l'uomo non può andare avanti. Ricordandoci che alla fine è solo una bella favola, l'uomo ottimisticamente riesce a rialzarsi, con la stessa fatica di chi si alza dal divano dopo aver dimenticato il telecomando, e con orgoglio riprende in mano il controllo della propria esistenza. Tra un romanticismo senza tempo, una bella e atipica storia di amore, un citazionismo di buona fattura(oltre ai già citati: siamo proprio sicuri che il robot Wall-E non sia scopiazzato da Corto Circuito?), momenti esilaranti e contenuti non da poco, "Wall-E" va oltre la dimensione del "cartone per bambini" e prova, con buoni risultati, ad aprirci un pò gli occhi.


Scheda film

Regia: Andrew Stanton
Anno e Nazione: 2008, USA

Adieu

venerdì 3 febbraio 2012

Nodo Alla Gola


Si sa che il delitto perfetto non esiste, se poi sulla scena del delitto viene organizzato pure un party casalingo le possibilità di venir scoperti aumentano esponenzialmente. Accade così che Brandon e Philipp, due giovani esponenti dell’alta borghesia, probabilmente accomunati da una tenera amicizia, organizzino una cena apparecchiando il tutto su un baule contenente il corpo dell’amico brutalmente ucciso, senza apparente motivo, qualche ora prima proprio con uno strettissimo nodo alla gola. Tra gli invitati anche i genitori e la fidanzata della vittima. La serata scorre tra verbose discussioni filosofiche, è presente anche un loro caro ex professore, in un contesto del tutto surreale, nell’attesa dell’invitato che non arriverà mai, nonostante fosse molto molto vicino agli invitati stessi..
"Nodo alla gola" è in assoluto una delle prove maggiormente virtuose dal punto di vista tecnico  della filmografia di Hitchcock: costruito su un solo apparente piano sequenza, gli stacchi ci sono e sono circa 6-7 abilmente nascosti tra le pieghe del film, è inoltre la prima prova a colori per il registra britannico.La maiuscola prova dal punto di vista tecnico non si perde nella sola dimensione estetica: geniali movimenti di macchina che indugiano su determinati particolari servono perfettamente al meccanismo classico della suspence, mettendo in secondo piano persino la scena madre. Il risultato però è perfettamente funzionale al significato della pellicola, la storia si declina in maniera sinuosa e continuativa, che col passar dei minuti stringe sempre più una corda ideale(the rope) al collo dei colpevoli sino allo svelamento finale che prorompe proprio come la rumorosa apertura del baule.
Ispirato a una storia vera il delitto descritto perde nel doppiaggio italiano la dimensione di delitto privo di moventi, solo qualche ambiguità è sollevata da eventuali gelosie interpersonali. Un delitto efferato e totalmente immotivato, che vive dell’ebbrezza del momento e del rovesciamento moralistico che stuzzica la vita dei due giovani e annoiati killer, un pò Paul e Peter ante litteram protagonisti di “Funny Games”.Accanto alle figure dei suddetti “killer per caso” spunta quella dell’ex professore che scopre la loro follia, uno straordinario James Stewart, che nel monologo finale mostra tutto il proprio stupore, rabbia ed orrore per aver dato loro i mezzi culturali per giustificare tal delitto: “Può un uomo poter disporre della vita o della morte di un altro?”. Un beffardo e lungimirante occhio sulla storia dell’umanità intera. Capolavoro.


Scheda film

Anno e Nazione: 1948, USA
Main Characters: James StewartJohn DallFarley Granger

Adieu

giovedì 22 dicembre 2011

Kill Me Please

Mi sento cotanto natalizio che ho deciso di parlare di Morte. Già, proprio la morte è l'assoluta protagonista di questa terribilmente nera commedia belga di Olias Barco. In una clinica privata un pò isolata dal mondo l'innovativo dottor Kruger presta un servizio,lautamente pagato, un pò particolare: ai propri pazienti offre la possibilità di passar a miglior vita, togliendo loro il pesante fardello di doversi assumere tal responsabilità. Beffardo però sarà il destino dei protagonisti, in quanto la Morte sopraggiunge ugualmente, ma sarà lei stessa a decidere quando intervenire.
Il tema trattato, per quanto spinoso, non è affatto frutto di fantasie, anzi in tutto il mondo ormai fioriscono le cliniche che offrono la possibilità di ottenere la cosiddetta"morte dolce", pratica inoltre considerata legale in diversi paesi europei. Come ovvio le discussioni riguardo alla questione sono accese, complesse e quantomai noiose, tanto che preferisco parlare di questo "Kill me please" che dal titolo evocativo sottolinea quella necessità di trapasso verso miglior vita che nel film di Barco affligge quella parte di società che, alla fin fine, conduce un'esistenza piuttosto agiata. Non si ha a che fare con malati terminali che aspettano soltanto che gli si stacchi la spina, ma al contrario tutta una serie di malati del benessere afflitti da sofferenze psicologiche(depressioni) che colpiscono subdolamente nel momento in cui questi non riescono più ad adattarsi a una realtà che non si accetta. Così è, tra gli altri, per la cantante lirica che non può più cantare, o per il possidente che non vuole lasciare la propria "roba" al parentame.
Come immersi in un grande e decadente spleen baudelairiano i nostri antieroi non risultano pietosi per le immani sofferenze fisiche ma al contrario buffi e fuori luogo per le loro pretese. Barco li descrive con compiaciuto cinismo giocando sulle loro debolezze e brutture facendo diventare i clienti della clinica dei topi in trappola, isolati dal resto del mondo, che si sbattono su e giù per la villa arrivando persino a sperare che il buon Dio riservi loro un'altra possibilità quando la morte, quella non voluta, si pone a loro cospetto.
Tra situazioni un pò grottesche e raccapriccianti, e perchè no crude, rimane quella sensazione di avere avuto a che fare con un argomento serio reso maledettamente spiazzante per la sua forma. Non si ride fragorosamente ma si sorride con quel retrogusto un pò amaro che si sente quando si guarda a un'umanità arrivata un pò alla frutta.
Con un bianco e nero di maniera, e con qualche passaggio a vuoto nella scrittura, "Kill me please" si propone come un'intelligente e atipica commedia dalle tinte scurissime che segna un altro punto a favore per il recente cinema francofono, tra belgi(?) e francesi, che fa rima con altre commedie di simil fattura, provenienza e cast(quanto spacca Bouli Lanners?!?!) vedi i sorprendenti "Louise-Michel" e "Mammuth".

Link streaming: http://italia-film.com/film-commedia/14926-kill-me-please-subita-2010-streaming-film-videobb.html


Scheda Film

Anno e Nazione: 2010, Belgio - Francia

Adieu

venerdì 16 dicembre 2011

Midnight In Paris

L'anno che sta per concludersi non ci ha di certo fatto mancare le grandi firme: da Von Trier a Polanski, passando per Cronenberg, Almodovar, Malick e Ficarra & Picone e qualcun'altro che dimentico, offrendoci risultati un pò alterni con tanto fumo(vero Ficarra & Picone?) e molto poco arrosto. Ma proprio allo scadere ecco che il buon vecchio Allen lascia la zampata giusta, chiaramente non annulla le magagne altrui, però ci riconcilia un pò col buon cinema.
"Midnight in Paris" nasce da un'idea semplice, un sentire comune, un sentimento che nella vita di un essere umano, con maggiore o minore intensità, prima o poi, si finisce per vivere: la nostalgia.
La storia del protagonista Gil Pender, un annoiato sceneggiatore hollywoodiano con velleità da romanziere, è quella di un incontentabile nostalgico che sta per sposare un donna bella e superficiale. Gil sogna di vivere a Parigi in un piccolo attico dalle finestre larghe e passeggiare con la baguette sotto l'ascella(scelta discutibile), lei in maniera molto più netta ha deciso che vivranno in una villa a Malibù, con tanti saluti alle baguette.
Attanagliato da un contesto di scelte di vita non molto allettanti, Gil sente un forte bisogno di evasione e, complice qualche bicchierino di troppo, allo scoccar della mezzanotte, vagando per le vie parigine, si ritrova dentro un locale dove sembra che le lancette del tempo si siano fermate da un pò: gli anni venti del Novecento. Passerà così più e più notti, sempre dopo la mezzanotte, a discutere amabilmente con l'esilarante Dalì e il suo rinoceronte, assistendo alle scenate di gelosia tra i coniugi Fitzgerald, inserendosi nella corsa a tre per il cuore della bella Adriana in lizza con il tracotante Hemingway e l'ossessionante Picasso, facendo leggere le bozze del proprio romanzo a Gertrude Stein, non lesinando consigli sulle rasature ad uno spaesatissimo Bunuel.
Allen ci racconta una favola ambientata in una città che di per sé sa di favola, magica e romantica come non mai, abitata da persone che magari non saranno una favola(perchè i milanesi sono simpatici? e i veronesi? e i napoletani?e palermitani?), rievocando un tempo che sa di favola, l'età dell'oro della cultura europea. Il vecchio Woody nella sua "Operazione Nostalgia"prova a rimanere lucido, fa dire ai suoi personaggi che la nostalgia non è altro che negazione di un presente doloroso, facendo notare come non esista un'età dell'oro in sé e per sé, in quanto negli anni venti si guardava alla Belle Epoque, e durante la Belle Epoque si guardava al Rinascimento, in un continuo portare indietro le lancette del tempo per poter ritrovare il proprio posto ideale nell'esistente. Sceglie la propria età dell'oro e con questa fa i conti, si immedesima, prova a togliere la maschera, ma in realtà la ammira come un bambino che si trova per la prima volta in un luna park.
Passando a cose più umane "Midnight in Paris" restituisce ad Allen l'aura, ultimamente un pò sbiadita, di "Re dei 90 minuti" dopo che gli ultimi salti attraverso le città europee non erano stati poi tutto sto spettacolo. Owen Wilson se la cava più che bene, inizialmente non gli avrei dato due lire, con tanto di movenze alleniane, in un contesto di attori in forma, e sono tanti, come un Adrien Brody/Dalì che in pochissimi minuti si merita la menzione. Ah!! dimenticavo la premiére dame Carlà Brunì! La sua interpretazione è d'impatto, bisogna ammetterlo, lo stesso impatto che ha un moscerino sul parabrezza di un Boeing 747, così tanto per capirci.
Infine piccola nota sulla scena finale tagliata con l'accetta come aveva già notato Frank Manila, ovvero la scena comincia con Wilson che parla alla ragazza senza che questa appaia sulla scena stessa o vi entri successivamente, come se stesse parlando a un muro... Per dovere di cronaca a quanto pare la colpa è del moscerino...



Scheda Film

Anno e Nazione: 2011, USA

Adieu